Ė una relazione indissolubile, quella tra la crescita dell’Italia e la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale. Un’idea di universalismo ormai tramontata, secondo la realistica lettura evidenziata dal 18esimo “Rapporto sanità”, presentato a Roma il 25 gennaio presso la sede del Cnel. Il Rapporto è una iniziativa nata nel 2003 grazie al team di ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata confluiti nel Crea – Centro di ricerca di economia applicata in sanità – diretto dal docente di Economia sanitaria dell’ateneo romano Federico Spandonaro (nella foto). L’intento è supportare il complesso sistema delle politiche sanitarie, fornendo analisi rigorose e approfondimenti scientifici. I numeri sono impietosi, e mettono in luce il divario tra la spesa per il Servizio sanitario nazionale che arriva al 75,6% della spesa sanitaria totale, contro una media dell’82,9% nei paesi Ue. L’aspetto più preoccupante riguarda i costi che hanno gravato sulle tasche dei cittadini: 41 miliardi per assicurarsi le cure che il servizio pubblico non poteva garantire, ovvero 1734 euro in media, per ogni famiglia, pari al 5,7% dei consumi totali. Nulla a che vedere con il Paese che poco più di due decenni fa si collocava nell’Olimpo della sanità a livello mondiale. Di fatto, dal 1995 in poi, l’offerta di salute in Italia ha subito una caduta vertiginosa, andando a occupare gli ultimi posti in termini di risultati e gradimento: una discesa inarrestabile. Andando di questo passo, con un Paese che non cresce resterà nell’angolo anche il nostro welfare se non si corre ai ripari. Si pensi, ad esempio, alla riduzione dei consumi sanitari che nel 2020 è stata dell’8,5% e peggiorano altri indici di equità: nel 2020 i nuclei familiari gravati dalle spese sanitarie sono stati 378.627, in crescita dello 0,6% rispetto al 2019. E affiora una terminologia che mette tutti in allarme, se la crescita non sarà rapida: universalismo selettivo. O si ripensa il sistema o ci si vedrà costretti a selezionare, dimenticando quel Servizio sanitario universalistico che abbiamo conosciuto, abbandonando l’equità. Una realtà in alcuni casi già in atto, in cui spesso restano fuori dall’offerta sanitaria i più fragili e svantaggiati. E l’attenzione si sposta sul Pnrr, che non deve essere il mero strumento atto a realizzare nuove infrastrutture, trasferendo fattori produttivi che non sono comunque in aumento. Grandi aspettative sono riservate alla innovazione digitale, che non può innestarsi su un sistema sanitario afflitto dalla burocrazia, incapace di evolvere agli stessi ritmi delle tecnologie. Prendendo a modello l’immane sforzo compiuto per sconfiggere il Covid, occorre ripensare il sistema avvalendosi delle esperienze positive, delle filiere strategiche. E nelle linee strategiche non possono non essere posti in primo piano temi come il governo delle liste di attesa, l’aggiornamento del Piano nazionale della cronicità, il ripensamento dei livelli essenziali di assistenza e di prestazione (Lea e Lep) da considerare come strumenti dinamici, mai immutabili, monitorando l’offerta delle Regioni ai cittadini. Una vera sfida per un settore in cui il finanziamento previsto si aggira intorno ai 2 miliardi annui, che necessiterebbe almeno di 5 miliardi l’anno per dieci anni e che soffre di una atavica carenza di professionisti: 30mila sono i medici mancanti e ben 250mila gli infermieri, con la tendenza a lasciare il Servizio sanitario nazionale per la scarsa attrattività che dimostra, sia in termini economici che di formazione e avanzamento professionale.

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