I mille perché di un free-lance della salute

timthumb-1.phpdi Giorgio Scaffidi*

L’Africa è costellata di donne e uomini provenienti dai paesi più ricchi, Europa e Usa, che si recano volontariamente lì a prestare la propria opera. Oltre agli impiegati di aziende commerciali, organizzazioni internazionali o che operano come religiosi e missionari, sono molti a cedere tempo, ‘ferie’, congedi in attività legate alla propria professionalità o del tutto svincolate da essa. Onlus, Ong, gruppi che fanno riferimento a parrocchie, cooperative, associazioni e movimenti vari, anche spontanei: sono una miriade le ‘etichette’ che investono forza lavoro intellettuale e fisica per attuare progetti di cooperazione e aiuto.

C’è poi un diffuso sottobosco che, dietro la copertura degli aiuti umanitari, specula e froda i benefattori. Parlo, invece, di quelle persone che vanno a fare in loco qualcosa di utile per gli altri. È questa la mia esperienza in Tanzania e Malawi, tra i paesi più poveri dell’Africa sub-sahariana. Da cardiologo, sono andato in questi anni a organizzare corsi di formazione professionale per il personale sanitario: medici, rari; paramedici, cioè infermieri selezionati per esperienza che svolgono tutte le attività medico-chirurgiche, interventi compresi e infermieri. Ai centri sanitari sono stati donati elettrocardiografi di cui ho spiegato l’uso e sono state attivate le postazioni di Telecardiologia per refertazione e consulto a distanza.

Lavoro, in pratica, come un “free-lance”, in rapporto sia con la comunità di Sant’Egidio e con i “Centri Dream” nell’Africa sub-sahariana, sia con l’ospedale di Vicenza che da anni sostiene l’ospedale regionale di Iringa in Tanzania. Capita così di fare incontri sbalorditivi, come con la coppia di italiani andati in vacanza in Tanzania da giovani e colpiti dalla miseria e dallo stato di abbandono di tanti bambini, specie quelli handicappati, causa la prolungata sofferenza cerebrale durante il parto. Tornati più volte, crearono dal nulla un luogo d’asilo e riabilitazione per quell’infanzia sventurata, per poi trasferirsi definitivamente lì, una volta arrivati alla pensione. Sono molti i medici, gli infermieri, i fisioterapisti italiani che quotidianamente si riversano fin nei villaggi più sperduti e disagiati. Perché? Le motivazioni sono molte e differenti tra loro. Spesso, ma non sempre, il movente è religioso. Certamente, c’è sempre una spinta etica per un senso di colpa inconfessato per la propria opulenza, ci sono altruismo e generosità. Credo si possa trovare un comune minimo denominatore la cui formula è di seguito spiegata. Ai miei figli, da bambini, avevamo insegnato che non si può in nessun caso e da parte di nessuno – grande o piccolo che sia – usare come risposta il “perché si” e “perché no!”.

Una spiegazione è sempre dovuta e sono tuttora convinto della validità di questa filosofia spicciola. A fronte della precedente domanda: “Perché?”, la risposta più completa credo sia: “Perché no?”, con quel punto interrogativo che fa la differenza. Perché non farlo, perché non impegnarsi, non sfruttare il proprio tempo, le proprie competenze quando si può? Le altre motivazioni, personali e soggettive, diventano un corollario.

*Cardiologo San Giovanni-Addolorata

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