San Giacomo: ‘schiaffo’ dei giudici alla Regione Lazio

Il piano di rientro dal debito sanitario della Regione Lazio non imponeva la dismissione tout court dell’attività assistenziale dell’ospedale San Giacomo. Parole come pietre, quelle vergate sulla sentenza con cui la terza sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Michele Corradino, il 7 aprile ha messo in discussione tutti i provvedimenti che a partire dal 2008, hanno massacrato la sanità regionale. Secondo i giudici amministrativi, nessun fine di razionalizzazione della rete ospedaliera, ai fini del ripianamento del disavanzo finanziario, può giustificare la soppressione di alcuna struttura, ancorché inefficiente. Al contrario, le norme costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione suggerirebbero ai responsabili, provvedimenti atti a riorganizzare i servizi in modo efficiente, piuttosto che liquidarli, ignorando “molteplici esigenze, quali il diritto degli assistiti alla fruizione di prestazioni sanitarie adeguate, l’efficienza delle strutture pubbliche, l’interesse pubblico al contenimento della spesa”. Eppure, a dispetto di tutto, il San Giacomo sta lì, chiuso dal 31 ottobre 2008 e inutilizzato. Di fronte, un arrangiato ambulatorio che avrebbe dovuto supplire alle necessità assistenziali dei cittadini, i cui scarsi risultati in termini di offerta sanitaria sono sotto gli occhi di tutti, perfino dei giudici che ne hanno citato l’inadeguatezza. Nel limpido e inappellabile testo, gli estensori si soffermano spesso sulle possibilità offerte al commissario ad acta – nella persona dell’allora presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo – volte alla “razionalizzazione dell’attività ospedaliera e la riduzione dei posti letto, per ricondurre l’ospedale ad una gestione efficiente e compatibile con gli obiettivi di risanamento finanziario regionale”. In sintesi, non si doveva ricorrere a misure drastiche come la chiusura ma applicare “la diligenza del buon padre di famiglia”, un dettato giuridico evidentemente sconosciuto ai nostri amministratori. Obiettivo del piano di rientro era ricondurre il numero dei posti letto agli standard nazionali, disposizione contenuta nell’intesa Stato-Regioni del 23 marzo 2005. Nel Lazio si è andati oltre, tagliando drasticamente 3.600 letti e chiudendo 16 ospedali nel giro di un decennio. Un eccesso, secondo quanto promana da Palazzo Spada, per cui “la legge regionale di assestamento del bilancio finanziario 2008, (con cui si decise di chiudere il San Giacomo e il Forlanini, ndr) travalicherebbe l’intento e le disposizioni del piano di rientro”, configurando “un errore sui presupposti e sviamento del potere rivolto a realizzare un risultato diverso rispetto a quello previsto dall’Accordo Stato-regione Lazio, cui ha inteso dare attuazione”. Su questo non ci piove e ora, i comitati per la riapertura dell’ospedale Forlanini, chiuso da Nicola Zingaretti il 30 giugno 2015 con le stesse motivazioni, staranno scaldando i motori. Insistono infatti i giudici asserendo che “la regola costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione non si può ritenere che possa legittimare lo smantellamento di un servizio pubblico ospedaliero in conseguenza della mera rilevata ‘inefficienza’ di gestione e senza alcuna preventiva analisi e adeguata motivazione in ordine alle cause e responsabilità della stessa”. Ovvero, se la Regione Lazio ha competenza sull’organizzazione ospedaliera e l’ospedale non funziona, le responsabilità non possono cadere in modo punitivo sui cittadini privandoli di un servizio essenziale. I responsabili sono da cercare altrove. Altro punto nodale su cui il Consiglio di Stato sembra non transigere è “l’interesse pubblico unito agli interessi degli assistiti nel territorio”, ferma restando la discrezionalità delle Regioni, “tale potere va esercitato tenendo conto di molteplici esigenze, quali il diritto degli assistiti alla fruizione di prestazioni sanitarie adeguate, l’efficienza delle strutture pubbliche, l’interesse pubblico al contenimento della spesa”. Soprattutto per il San Giacomo, altre condizioni ne impedivano la chiusura: il vincolo testamentario del Cardinale Antonio Maria Salviati, che nel 1593 donò l’ospedale ai romani purché ne mantenessero la destinazione all’assistenza pubblica e l’essere sede Peimaf ovvero, “Piano di emergenza per il massiccio afflusso di feriti” in caso di maxi urgenze, considerata la sua collocazione nel centro di Roma. Soddisfazione è stata espressa dall’avvocato Isabella Maria Stoppani e da Oliva Salviati, discendente del cardinale che da oltre 12 anni si batte per la riapertura del nosocomio: “Ė una vittoria di tutti – sostiene ringraziando chi le è stata vicina nella battaglia – non poteva finire altrimenti, sono ancora incredula”. Si, perché non è semplice trovare chi ancora sostiene che “l’asserita riorganizzazione della rete ospedaliera non poteva ignorare le esigenze assistenziali del territorio”. E la chiusura del San Giacomo, comunque, ha generato un vuoto di assistenza.

Commenti Facebook:

Commenti