Malati di Alzheimer soli in pronto soccorso? Inaudito

Ė un martedì qualsiasi, una mattina come tante nell’affollato pronto soccorso del policlinico Gemelli. Su una panca c’è Giovanni, 73 anni, che attende di essere visitato. Ė accompagnato da suo figlio perché non è un malato come gli altri: è affetto da Alzheimer e avrebbe diritto a un trattamento un po’ diverso rispetto ai pazienti in fila insieme a lui. Ė noto che le persone affette dal terribile morbo tendono alla fuga, sono soggette a perdersi per la mancanza di orientamento, hanno bisogno comunque di una presenza fissa accanto 24 ore su 24. Purtroppo, nel policlinico universitario non si tiene conto di tali peculiarità. Inaspettatamente un operatore del pronto soccorso allontana il figlio con un perentorio “Lei non può stare in ospedale, quando abbiamo finito la visita la avvisiamo” e, nonostante le insistenze, il congiunto deve allontanarsi, pensando che suo padre si trovi comunque in buone mani. Così non è stato: estenuato dalla lunga attesa, dall’incomprensione su ciò che stava avvenendo, dal senso di solitudine che deve aver provato, Giovanni si è allontanato dalla sala di aspetto senza che nessuno si accorgesse della sua assenza. Ė stato ritrovato alcuni giorni dopo nel vicino parco dell’Insugherata. Morto, riverso a terra, forse è scivolato, sicuramente si è perduto tra i vuoti della sua mente ormai annebbiata. Sono tanti gli interrogativi che vengono in mente. Primo fra tutti: è possibile che in pronto soccorso non esistano percorsi diagnostici specifici per malati di Alzheimer? Come mai operatori sanitari, che dovrebbero conoscere la sintomatologia legata al morbo, hanno ritenuto opportuno lasciare sola una persona colpita?  Chissà cosa avrà pensato Giovanni, nelle nebbie della sua mente da solo in quel pronto soccorso. Avrà creduto che suo figlio lo avesse abbandonato. Non lo sapremo mai. Di sicuro, vorremmo sapere perché ciò sia avvenuto e, una volta per tutte, di chi sono le responsabilità

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