Riapriamo gli ospedali!

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, l’intervento della rappresentante dell’Associazione Italia Nostra al convegno “Riapriamo gli ospedali”

Voglio ringraziare, a nome di Italia Nostra Roma, i promotori del convegno. Una iniziativa che mancava, che si aspettava da tempo, a cui il comitato “Riapriamo gli ospedali” dà concretezza, con la proposta di legge di iniziativa popolare. Un dare voce a quei cittadini che da anni invocano la riattivazione, riconversione, il riutilizzo di edifici altrimenti lasciati all’abbandono e al degrado. Come Italia Nostra Roma – che mi onoro di rappresentare in questo contesto – voglio ricordare due figure che nella battaglia per gli ospedali hanno svolto un ruolo essenziale: il compianto presidente Carlo Ripa di Meana e la storica vicepresidente Mirella Belvisi, che ci ha lasciato da poco più di un mese, la cui assenza sebbene si faccia sentire, ci sprona a portare avanti con tenacia le nostre istanze. Ricordiamo Carlo con il suo impegno militante nella difesa del San Giacomo con le petizioni, le fiaccolate, gli appelli e ricordiamo il paziente e competente lavoro di Mirella per creare il “Gruppo Ospedali” in seno a Italia Nostra Roma che mi permette di essere qui, oggi, per sostenere ciò che una recente sentenza del Consiglio di Stato ha solennemente affermato: “non si può subordinare il diritto alla salute alle necessità dell’economia”. Legato a tale imprescindibile diritto, come esponente di Italia Nostra, ribadisco l’importanza che rivestono gli edifici con un passato da ospedali oggi chiusi, soprattutto se di elevato valore storico-artistico ambientale e una collocazione strategica nel contesto urbanistico. Purtroppo, una tendenza politico-economica affermatasi alla fine degli anni Novanta, ha operato profondi mutamenti nella sanità pubblica del nostro Paese. Non c’è governo, indipendentemente dalla collocazione, che in quegli anni non abbia praticato il depotenziamento del Servizio sanitario nazionale. Su tale improvvida deprivazione, si sono inserite le difficoltà provocate ai nostri giorni dalla pandemia da Covid-19, che hanno solo esasperato un vulnus presente da tempo. Così, paradossalmente, ci siamo trovati di fronte a soluzioni tampone quali l’allestimento di tendopoli o spazi di fortuna come reparti di degenza per sopperire alle emergenze, mentre in tutto il Paese più di 170 ospedali sono stati chiusi in dieci anni e almeno la metà di questi giace nel più completo abbandono senza alcuna idea su come riconvertirli. Destrutturare i piccoli centri ospedalieri, favorendo l’accorpamento dei servizi ha fatto sì che da Nord a Sud Italia si assistesse a fenomeni ingiustificabili sotto ogni punto di vista: l’oblio, o peggio lo snaturamento di un patrimonio di alto valore storico, artistico e ambientale. Contestualmente, non si sono fermati faraonici investimenti in edilizia sanitaria, con il favore di datate normative risalenti addirittura agli anni Ottanta, e con l’impiego di corposi finanziamenti rivelatisi spesso ridondanti. Come non citare, quale esempio paradigmatico, l’abbandono del San Carlo Borromeo a Milano Nord e del San Paolo, al polo opposto della città, per dar vita a una nuova struttura nel parco sud di Milano, in area vincolata, al costo di 500 milioni di euro, il quadruplo dell’investimento previsto per la ristrutturazione del San Carlo, con 500 posti letto in meno in nome di una presunta “razionalizzazione”, andando a interessare una pregiata area di verde pubblico. Diversa sorte è stata riservata all’ex sanatorio di Sondalo intitolato a “Eugenio Morelli”, riconvertito da anni a ospedale generale, destinato in questo periodo a pazienti affetti da coronavirus “in ragione – si legge nella delibera regionale – della sua lunga storia di ex sanatorio e della sua vocazione tisiologico-infettiva”. Ora è tornato sede di alte specialità chirurgiche “in un’ottica di ascolto, confronto e collaborazione con il territorio”, specifica sempre l’assessore al Welfare della Lombardia Letizia Moratti. Di legami con il territorio questo edificio razionalista degli anni Trenta ne ha moltissimi. Uno dei più forti è quello riferito alla salvezza di centinaia di opere d’arte dei musei milanesi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, che trovarono riparo nei padiglioni di queste montagne, ritenute all’epoca “dispensatrici di benessere”, con l’acquiescenza del comandante della guarnigione tedesca di stanza nel villaggio, già professore di storia dell’arte italiana. Come non provare un sussulto di tenerezza, rammentando poi la storia dell’ex dispensario antitubercolare di Piacenza in cui dal 1938 si svolse un’opera di prevenzione per i bambini. Durante la guerra divenne ospedale dei partigiani poi occupato dalle truppe nazi-fasciste. Fino agli anni Sessanta riprese le sue funzioni ma oggi versa nel più completo abbandono. Di rilievo anche la grande opera assistenziale svolta dalle confraternite in Toscana fin dal Medio Evo, che diede vita a una fitta rete di ospedali in ogni piccolo centro, presidi che oggi restano soltanto un’antica testimonianza, riconvertiti per lo più a servizi generali delle Asl. Tali vicende ci riportano a un altro tema legato agli ospedali storici: il loro legame con il contesto. Comunemente, siamo soliti attribuire all’ospedale significanti legati alla mera attività che si svolge all’interno, ancorché rilevante. All’ospedale sono legati infiniti momenti dell’esistenza: nascite, malattie, morti, lavoro, legami, aspirazioni e molto, molto altro. Non sempre si analizza il rapporto che “l’edificio” ospedale ha con “l’intorno”, incontestabilmente significativo. Per portare un esempio a noi noto, il Forlanini collega due ambiti importantissimi per il quadrante Ovest di Roma: i quartieri Monteverde e Portuense. Tenerlo chiuso, significa aver azzoppato tutta la vitalità dell’intorno, il commercio, la socialità, la manutenzione ordinaria. L’ospedale oggi offre di sé una immagine che rimanda agli anni Cinquanta, quando il complesso, circondato da una possente muraglia viveva un comprensibile isolamento, causato dallo stigma legato al “mal sottile”.  Poi il cambiamento, legato alla Riforma sanitaria che vide il Forlanini unito al vicino San Camillo, sotto la stessa amministrazione. Due esempi significativi di architettura ospedaliera del Novecento a Roma: il Forlanini quale primo modello di monoblocco, a confronto con il San Camillo a padiglioni, destinato a inevitabile superamento. Di sanatorio riconvertito abbiamo un positivo esempio a Padova, con la struttura oggi divenuta efficiente “Istituto oncologico veneto” mentre a Savona il San Paolo, inaugurato nel 1857, che vantava il primato di unico ospedale pubblico della neonata Italia Unita, è stato trasformato in struttura residenziale, commerciale e del terziario, con un accordo tra pubblico e privato. Analoga sorte per l’ospedale di Montepulciano, dalla cui struttura sono state ricavate civili abitazioni, uffici e negozi mentre all’ex sanatorio Banti in località Pratolino, uno dei più interessanti esempi di architettura ospedaliera del  XX secolo in Toscana, è andata un po’ peggio, con un destino di abbandono e degrado, dopo vari tentativi di riconversione. Storia singolare è quella dell’ospedale campano di Beneficenza, del 1872. Alle sue spalle, una struttura moderna è stata costruita nel 1992 per renderlo più spazioso, con un investimento di un miliardo di lire. Nel 1995 l’intero complesso fu dismesso. Potrebbero essere portate ad esempio numerosissime vicende, tutte rivelatrici di una difficoltà di programmazione, di mancanza di progettualità e disinteresse nei confronti di strutture che potrebbero rappresentare un valore aggiunto per la nostra cultura, la nostra organizzazione sociale e la tutela del nostro patrimonio artistico e ambientale. Anche l’ambiente, nella vicenda della riconversione o ricostruzione degli ospedali, gioca un ruolo fondamentale. Ė il caso del nuovo ospedale da progettare nella piana dell’Ossola, soluzione fortunatamente scartata, sia per problemi organizzativi – l’ospedale unico baricentrico dista troppo da paesi popolosi – sia per quanto attiene alla natura del terreno che presenta problemi di natura idrogeologica. Non sempre la riconversione degli ospedali si risolve in un cambio di vocazione a svantaggio della collettività. A Cuneo, l’ex ospedale Santa Croce sta diventando biblioteca pubblica, da poco è stato aggiudicato il secondo lotto delle opere con bando di gara europeo e si sta organizzando il complesso trasloco di 300mila volumi. Ambiziosa operazione anche nel Lazio, a Viterbo, dove la Regione ha investito 20 milioni di euro per realizzare, nell’antico Ospedale Grande degli Infermi “Il borgo della cultura”, che diverrà la nuova sede dell’archivio di Stato e della biblioteca provinciale, cui si affiancheranno un piccolo teatro con spazio all’aperto, un ostello della gioventù e la “casa del pellegrino”, che accoglierà i camminatori della via Francigena che nella Città dei Papi ha una delle sue tappe. Come si evince da questa breve e non esaustiva esposizione, dal Piemonte alla Sicilia, passando per il Centro Italia, le situazioni sono difformi e manca un’unica regia in grado di stabilire una programmazione degli interventi. Il gioco di veti incrociati tra forze politiche fa la sua parte nel dilazionare tempi e decisioni. Un patrimonio di valore, rischia di perire per tale preoccupante scenario. Il 22 giugno 2017 le Regioni proposero all’allora ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, la costituzione di un Fondo nazionale per valorizzare gli ospedali dismessi. L’idea, promossa dagli assessori regionali alla Sanità coinvolgerebbe Invimit, società con capitale del ministero dell’Economia che opera già nella “valorizzazione” delle ex caserme. Della proposta, condivisibile o meno che fosse (quando si parla di valorizzazione c’è sempre da preoccuparsi), non si ha più notizia. Nei fatti qualunque piano, scelta, opzione per riaprire gli ospedali, avrebbe il pregio di riavviare la discussione sul tema. Per questo esprimo tutto il mio apprezzamento e quello di Italia Nostra Roma, per l’Associazione Beni Comuni, che ha la tenacia giusta per perseguire la sfida della proposta di legge di iniziativa popolare, applicando alla lettera quanto previsto da recente normativa regionale. Da ultimo, sempre legato alla pandemia, va il mio ricordo per tutti quegli anziani ricoverati nelle Rsa – residenze assistenziali che di assistenza, in molti casi hanno poco o nulla – che non ce l’hanno fatta a superare le insidie del coronavirus. Alla perdita di gran parte di una impareggiabile generazione, si lega il tema della potenzialità che le strutture dismesse avrebbero nel riformulare un nuovo modello di esistenza per gli appartenenti alla Terza e oggi, Quarta età. Sarebbe auspicabile un nuovo piano di accoglienza con un respiro non solo locale. Architetture fatiscenti, fantastiche – il délabré ha il suo fascino – comunicano sensazioni inesprimibili. Potrebbero rigenerarsi, vivere una seconda vita, rendersi disponibili laddove oggi cerchiamo aiuto. Sappiamo che costruire ex novo può essere meno oneroso ma far rivivere strutture esistenti è esempio di competenza. Fa bene alla città, all’ambiente, alle persone. Così si sostiene una vera politica ambientale, restituendo all’architettura una seconda vita: un nuovo inizio, di una Storia già vissuta

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2 thoughts on “Riapriamo gli ospedali!

  1. OTTIME CONSIDERAZIONI E PROPOSTE DA ITALIA NOSTRA CHE DA DECENNI ORMAI PROMUOVE POLITICHE DI CURA PER IL TERRITORIO NAZIONALE, E LE SUE BELLEZZE.

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