Siamo persone, non colori

copertinaMi chiamo Giuseppe, ho più di 70 anni. Neanche preciso quanti, ora che sono alla fine della mia vita. Più di 40 ne ho passati in questo ospedale, ci ho lavorato con grande gioia, quando tutto qui dentro era diverso. Da tre giorni mi trovo qui, in pronto soccorso. La mia malattia, che non mi lascia scampo, questa volta non mi consente di essere curato a casa, vicino alle mie cose ai miei affetti. Un tempo i miei affetti e le mie cose erano anche qui dentro: i magazzini dove passavo la mia giornata, le suorine solerti e indaffarate che non te ne lasciavano scappare una, le rose nelle aiuole che ora non ci sono più: hanno lasciato il posto al cemento e alle macchine. E ancora, la grande famiglia ospedaliera e quella rude cordialità operaia a cui mi ero piacevolmente abituato, l’impronta caritatevole dell’assistenza, in seguito criticata e poi rimpianta, l’amministrazione così vicina a tutti i lavoratori. Tutto sparito. In questo ospedale, dove c’erano 4000 letti e un migliaio di dipendenti – forse troppi quelli e troppo pochi questi ultimi – nessuno ti mandava via, nessuno ti lasciava gemere di dolore dietro una tenda, in una saletta affollata da tanti disperati come te, nessuno stabiliva il tuo stato di salute attribuendoti un colore: rosso, giallo, verde, bianco. Neanche fossimo semafori. Un omone, in apparenza collerico ma buono come il pane, girava tutto l’ospedale montando letti nei corridoi, discutibile rimedio al sovraffollamento, che però consentiva a tutti, sebbene in sede impropria, di ricevere costante assistenza, controllo dei medici e degli infermieri, quel poco di privacy che oggi faremmo carte false per riavere qui, in pronto soccorso da uno, due, tre e anche più giorni. In attesa di un posto letto che non arriva – per i burocrati di ministero e regione ne abbiamo troppi – con le padelle che girano allo scoperto, davanti a tutti, il carrello del vitto che passa per sfamarti, considerata la lunga permanenza, le lampade implacabili che ti martellano gli occhi ma servono a medici e infermieri, altre vittime del sistema che fanno ciò che possono per alleviare il tuo disagio. Mi è stato attribuito il codice verde al momento dell’arrivo. Verde speranza ma la speranza di salvare il servizio sanitario pubblico è sempre più flebile. Secondo loro, usando il linguaggio specialistico, io sarei un paziente “poco critico, con assenza di rischi evolutivi, da sottoporre a prestazioni differibili” e forse è vero. Ma come tale e come tanti altri, rossi, gialli, bianchi che siano, ho diritto alla mia dignità, a un’assistenza adeguata, a una collocazione idonea al mio stato di moribondo. Insomma: ho diritto alla salute e a cure adeguate al mio caso. Nell’Italia mortificata dagli scandali, dalle ruberie, scarnificata dalla voracità di una classe politica che, per difendere i propri privilegi ha impoverito il Paese, per i cittadini contribuenti i precetti costituzionali diventano carta straccia.

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