Sanità del Lazio: vietato parlare dell’evidenza

L’azienda di emergenza Ares 118 del Lazio ha sospeso per un mese una propria dipendente per aver rilasciato una intervista. Francesca Perri, medico dell’emergenza in servizio sulle ambulanze, sindacalista Anaao Anmos – la più rappresentativa sigla dei camici bianchi pubblici – ha subito il provvedimento disciplinare con sospensione dello stipendio e nota nel fascicolo personale, per aver denunciato in un’intervista al quotidiano “Il Tempo” del 6 aprile scorso, presunte inadempienze a causa della carenza dei dispositivi di sicurezza anti Covid, con un accenno agli atavici problemi da cui sarebbe afflitto il servizio sanitario regionale. Difficoltà amplificate dall’emergenza coronavirus e raccontate quotidianamente dalle cronache dei media. Di norma, i sindacalisti sono esentati dal divieto di conferire con i giornalisti ma Francesca (o gli intervistatori?) avrebbe omesso di specificare la sua qualifica sindacale così è arrivata la mannaia aziendale. Non è il primo caso in questi ultimi anni. Prima di lei, è toccato a un infermiere del Policlinico romano Umberto I, che nel 2019 aveva lamentato su un canale social presunti favoritismi nell’accesso in pronto soccorso di un noto esponente politico del Partito democratico (https://www.sireneonline.it/wordpress/?p=6048) e ancor prima sono incappati nelle norme “bavaglio” due dipendenti dell’Istituto Spallanzani di Roma – oggi al centro dell’attenzione quale polo di riferimento per l’assistenza al Covid – che nel 2017 raccontarono a “Radio Onda rossa” le condizioni di lavoro non proprio ottimali che affrontavano quotidianamente. La prima reazione è di stupore, in quanto nella società dei mass media pervasivi, che riportano ogni aspetto della vita quotidiana di tutti noi, si presume che la pubblica denuncia di un lavoratore debba, al più, provocare una smentita senza ricorrere a misure tanto drastiche. Riflettendo a fondo però, emerge un dato essenziale: nella sanità diventata azienda, si è sottoposti alle analoghe misure che assumerebbe un imprenditore privato, per quanto attiene alla “lesione dell’onore” della “ditta”. Ė così dagli anni Novanta, uno dei primi ad attuare tali disposizioni fu il direttore generale di una grande azienda ospedaliera di Roma, precursore nella istituzione dell’ufficio stampa in un ospedale pubblico. Da qui cominciano le ambiguità. La legge 150 del 2000, che disciplina la comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, non ha normato le facoltà dei dipendenti relativamente al diritto di cronaca, lasciando a codici deontologici e regolamenti interni le regole cui questi debbono attenersi. Ė concepibile questo con l’attuale situazione in cui sono ridotti i servizi pubblici? O c’è una sorta di normalizzazione per cui, è autorizzato a parlare soltanto chi rappresenta l’istituzione? Di primo acchito viene da pensare che questo contrasti con l’articolo 21 della Costituzione “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Nel giusto bilanciamento degli interessi però, si può comprendere la posizione di un vertice aziendale, teso a mostrare soltanto la parte accettabile della propria organizzazione. Questo cozza spesso con la realtà dei fatti che, prima o poi, dipendenti sindacalisti o altro, non tarda a venire fuori. In tutto ciò c’è un convitato di pietra: il legislatore. In una società che muta velocemente, non si può restare inermi contro tali inammissibili conflitti. La verità su una realtà aziendale, per quanto scomoda, va divulgata con ogni mezzo ma l’azienda ha tutto il diritto di tutelarsi, non affidandosi unicamente a provvedimenti restrittivi.

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